Skuma

LE SIRENE E LA LEGGENDA DI SKUMA

Mitologiche guardiane delle acque tarantine, le Sirene ammaliano cittadini e visitatori che si affacciano alle ringhiere del Lungomare.

Queste misteriose sculture, risalenti agli anni ’90, furono donate alla città dall’ingegno dello scultore tarantino Francesco Trani. Realizzate in malta cementizia marina, molto più resistente all’azione corrosiva dell’acqua e della salsedine, arrivano ad un totale di 2500 kg di peso ciascuna.

Perfettamente inserite nel paesaggio naturale marino, le Sirene non sono solo oggetto di pregio, ma costituiscono una vera e propria narrazione leggendaria per la città dei due mari, tanto cara alle creature marine della mitologia greca.

Ethra, Satyria e Skuma: quest’ultima la protagonista della leggenda che la ritrae come donna di rara bellezza, sposa di un giovane pescatore. È proprio il mare a chiamare il pescatore, allontanandolo da casa per giorni e giorni per via del suo mestiere, costringendolo ad abbandonare a lungo la sua sposa.
Approfittando dell’assenza del marito, un ricco signore tarantino, colpito dalla bellezza della donna, cominciò a corteggiarla ed omaggiarla dei regali più preziosi; fino a quando la sofferenza causata dalla solitudine, spinse la giovane sposa a cedere alle incessanti seduzioni del signorotto.

In preda al rimorso, confessò presto allo sposo la sua infedeltà; il pescatore, dal canto suo, condusse la moglie in barca e, giunti in mare aperto, la spinse in acqua, facendola annegare.

Furono proprio le sirene a giungere in soccorso prima che fosse troppo tardi; affascinate dall’incredibile bellezza della giovane, la incoronarono loro regina, con il nome di Skuma (Schiuma) poiché era stata portata dalle onde del mare.

Intanto il pescatore, pentito del gesto compiuto, e credendola ormai morta, tornò in barca nel punto in cui la donna era annegata, per compiangerla. Le sirene allora lo fecero cadere in acqua, per poi rapirlo e condurlo al cospetto della loro regina. Skuma lo riconobbe immediatamente, e supplicò le sirene di risparmiargli la vita e di lasciarlo andare, poiché lo aveva perdonato.

Risvegliatosi a riva, il pescatore capì di volere di nuovo la moglie accanto a sé, ma non sapeva come sottrarla alle sirene. Una fata, accorsa in suo aiuto, gli svelò quanto necessario per liberare la sua amata: raccogliere l’unico fiore di corallo bianco dal giardino delle sirene.

Il pescatore ordì dunque un piano: vendette i suoi averi per comprare gioielli e pietre preziose; con la sua barca si addentrò nelle acque del golfo di Taranto e le riversò in mare. Mentre le sirene, incuriosite dai preziosi, lasciarono incustodita Skuma, lei, in accordo col pescatore, rubò dal loro giardino il fiore di corallo.

Il pescatore lo consegnò dunque alla fata; quest’ultima, grazie ai suoi poteri, sollevò un’enorme onda che ingoiò le creature marine del golfo, e riportò sulla spiaggia i due amanti, finalmente di nuovo l’uno tra le braccia dell’altro.

I MILLE VOLTI DI SAN DOMENICO

Rivolta verso il Mar Grande di Taranto, la chiesa di San Domenico spicca tra gli antichi palazzi per dare il primo saluto ai diportisti del Borgo Antico.

La chiesa, dallo stilo romanico, possiede una pianta a croce latina, con una navata centrale ed una navata a sinistra, da cui si sviluppano quattro cappelle laterali. In realtà, la sua architettura risente di un secolare processo di stratificazione: le fondamenta poggiano infatti sui resti di un tempio greco risalente al VI sec. a.C., tutt’ora visibili attraverso dieci botole aperte sul pavimento; su quei resti venne poi edificata nel corso dell’XI secolo la chiesa di San Pietro Imperiale.

Solo nel 1302 la chiesa cominciò ad assumere l’aspetto così familiare ai tarantini di oggi: quando il feudatario franco-provenzale Giovanni Taurisano, giunto in città al seguito di Carlo II d’Angiò, ne commissionò il rifacimento, come testimoniato da un’iscrizione in latino sullo stemma del portale di ingresso. I padri domenicani vi si insediarono subito dopo, e nel 1349 la chiesa venne finalmente consacrata a San Domenico di Guzmán.
Quei caratteri stilistici tipicamente trecenteschi sono ancora intatti sulla facciata: il portale ogivale, o a sesto acuto, con la sua struttura ad arco appuntita nella sommità. Ma soprattutto lo splendido rosone: classificato come uno dei più importanti esemplari di arte pugliese, spicca per bellezza e grandezza nell’elenco dei «Rosoni di Puglia», candidati a diventare Patrimonio mondiale Unesco.

Il rosone rivela nei suoi dettagli l’appartenenza ad un periodo di transizione tra l’arte romanico-pugliese, caratterizzata da elementi greco-italici e romani, e l’irrompente stile gotico. Di ispirazione classica, ad esempio, vi è sicuramente l’alternanza di archi e anelli lungo la circonferenza del rosone. Il nuovo spirito gotico si rivela invece nelle colonnine pensili laterali, non più dal fusto liscio a sezione circolare, ma decorato con scanalature profonde disposte a spirale.

Al di sopra delle colonnine, tra i capitelli e le imposte dell’arco, sono incastrati due leoni rivolti l’uno verso l’altro. Al centro del rosone è raffigurato l’Agnello, di evidente richiamo cristologico; appena sopra, invece, lo stemma di casa d’Angiò a rilievo sulla facciata, ad indicare proprio l’investitura feudale dei Taurisano.

Delle numerose ristrutturazioni, una delle più significative è infine quella del XVIII secolo, che portò all’aggiunta della scalinata a due rampe di stampo barocco: necessaria per l’accesso alla chiesa dopo la creazione del Pendio San Domenico, che collega Via Duomo alla parte bassa dell’isola.

Eppure, per i tarantini la chiesa di San Domenico è molto più di un semplice edificio storico: il forte legame scritto nel DNA della città ha profonde radici popolari, che vedono la chiesa protagonista dei Riti della Settimana Santa. San Domenico ospita infatti la statua della Vergine Addolorata che, allo scoccare della mezzanotte di ogni Giovedì Santo, esce per le strade del borgo alla ricerca di Gesù, in una lunghissima processione che la riaccompagna poi nella sua storica cappella nelle prime ore del pomeriggio del Venerdì Santo.